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SISTEMA ENDOCRINO E CORONAVIRUS (COVID-19)

SISTEMA ENDOCRINO E CORONAVIRUS (COVID-19)

In questo articolo vengono passate in rassegna le relazioni note tra l’infezione tra nuovo Coronavirus (SARS-CoV-2) e le principali malattie che interessano il sistema endocrino.

PREMESSA

La pandemia da nuovo Coronavirus (SARS-CoV-2) e la malattia da esso indotta (Coronavirus Disease o COVID-19) riempie da giorni le pagine di giornali, telegiornali e testate web. Si tratta di un virus nuovo, che fino a poche settimane fa viveva probabilmente solo nei pipistrelli, su cui si hanno poche certezze scientifiche sull’uomo. Le poche evidenze, peraltro, sono in continuo aggiornamento ed evoluzione. Non è infrequente, quindi, imbattersi in informazioni provenienti da fonti non attendibili e/o prive di qualsiasi fondamento scientifico.
Per quanto possibile, il mio obiettivo, da medico specialista endocrinologo, è cercare di fare un poco di chiarezza sulle possibili relazioni tra nuovo coronavirus SARS-CoV-2 e sistema endocrinologico.
Quest’articolo, quindi, è il frutto di una ricerca del tutto personale ma eseguita su riviste scientifiche, siti internazionali di ricerca scientifica e sull’opinione di esperti del settore (expert opinions). Non ha la presunzione di essere esaustivo, in quanto le certezze attuali sono davvero poche e vanno comunque interpretate dinamicamente poiché il quadro scientifico è in continua evoluzione.
In sostanza, le informazioni riportate al momento della pubblicazione di questo articolo si basano su ciò che è attualmente noto sull’infezione COVID-19, ma potrebbero esser superate nei prossimi mesi, in base al riscontro di nuove evidenze scientifiche.

VIRUS

Ma che cos’è un virus?
Innanzitutto va chiarito che un virus non è un organismo vivente, ma semplicemente del materiale genetico (DNA o RNA), racchiuso in un involucro protettivo (capside) costituito da proteine e talvolta anche da lipidi. Un virus, se assorbito dalle cellule umane, è in grado di modificarne il codice genetico e di assumerne il comando, iniziando a replicarsi e scatenando collateralmente un processo infiammatorio.
Esistono diversi tipi di virus, distinti in base al materiale genetico (DNA-virus o RNA-virus) o in base al tipo di rivestimento protettivo (Rotavirus, Coronavirus, Batteriofagi, Poxvirus etc.).
Tutti i virus dipendono completamente dalle cellule ospiti e, poiché trattasi di esseri non-viventi, non possono essere uccisi. Fortunatamente, però, i virus sono molto fragili, poiché l’unica cosa che li protegge è il sottile strato esterno di proteine e lipidi. Ecco il motivo della raccomandazione di lavarsi bene e frequentemente le mani, in quanto l’uso di saponi e detergenti alcolici, dissolvendo lo strato lipido-proteico di rivestimento, fa scomporre la capsula protettiva e fa disperdere il materiale genetico contenuto all’interno. Il tempo di disintegrazione spontanea di un virus, invece, è variabile e dipende da molti fattori (temperatura, umidità, materiale in cui si trova).

CORONAVIRUS

I coronavirus (CoV) sono dei virus a RNA (sottofamiglia Orthoronavirinae, famiglia Coronaviridae, sottordine Cornidovirineae, ordine Nidovirales) che possono causare diverse malattie nell’uomo, principalmente infezioni del tratto respiratorio superiore e del tratto gastrointestinale. La gravità di queste condizioni è molto variabile. Infatti, i coronavirus sono responsabili sia di buona parte delle comuni sindromi da raffreddamento, sia di sindromi respiratorie più gravi come la SARS (sindrome respiratoria acuta grave, Severe Acute Respiratory Syndrome) e la MERS (sindrome respiratoria mediorientale, Middle East Respiratory Syndrome).
Devono il loro nome all’aspetto dei virioni al microscopio elettronico che ricorda una corona reale o una corona solare. Tra questi ricordiamo: a) Coronavirus Umani Comuni: 229E (coronavirus alpha), NL63 (coronavirus alpha), OC43 (coronavirus beta), HKU1 (coronavirus beta); b) Altri Coronavirus Umani: MERS-CoV (coronavirus beta che causa la MERS, Middle East respiratory syndrome), SARS-CoV (il coronavirus beta che causa la SARS, Severe acute respiratory syndrome ); SARS-CoV-2 nuovo coronavirus (denominato in precedenza 2019-nCoV).

NUOVO CORONAVIRUS 2019 (SARS-CoV-2)

Il 31 dicembre 2019 le autorità sanitarie cinesi hanno riferito che nella città di Wuhan (Hubei, Cina centro-orientale) si era sviluppato un focolaio epidemico di casi di polmonite atipica a eziologia non nota, poi attribuita a un nuovo Coronavirus (SARS-CoV-2). Da allora l’epidemia si è diffusa in Italia e in tutto il mondo diventando una Pandemia che ha coinvolto migliaia di persone.
La via aerea (droplets) è la principale modalità di trasmissione del SARS-CoV-2, attraverso il contatto con pazienti infetti sintomatici e asintomatici. Il periodo d’incubazione è stimato essere fra i 2 e i 14 giorni. I sintomi di esordio sono aspecifici, essendo simili a quelli di una sindrome influenzale. Nei casi più severi, può causare una polmonite interstiziale con un quadro clinico e radiologico tipico.
Non è ben definito, al momento, se vi siano gruppi di popolazione particolarmente a rischio, ma la probabilità di sviluppare un quadro clinico più grave è sicuramente maggiore negli anziani ed in chi ha patologie preesistenti, respiratorie, cardiache o metaboliche. Sembra esserci una leggera prevalenza di casi e mortalità nei maschi. Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che tale prevalenza di genere sia da attribuire al diverso assetto ormonale e immunologico, che in termini evoluzionistici, favorisce la sopravvivenza del sesso femminile. In analogia con l’epidemia SARS, causata da un altro tipo di coronavirus, il decorso nei giovani sembra essere più favorevole. Bambini e adolescenti presentano molto raramente quadri clinici severi.
Quindi una prima domanda cui cercare di rispondere è: ci sono dei soggetti a rischio?
Dall’analisi dei dati cinesi sulla mortalità da COVID-19 a Wuhan, emerge che le principali comorbidità associate sono: ipertensione (53,8%), diabete (42,3%), cardiopatie (19,2%) e ischemie cerebrali (15,4%).
Tali dati sembrano essere confermati anche dall’analisi preliminare dell’epidemia italiana. I problemi più seri da COVID-19 insorgono in pazienti che presentano anche altre patologie (ipertensione, diabete, ischemia cerebrale, malattia di Parkinson, insufficienza renale, BPCO, patologie autoimmuni). A questi fattori di rischio, ovviamente, vanno aggiunti l’età avanzata e l’assunzione di farmaci immuno-soppressori (che agiscono sul sistema immunitario, inibendolo).
Ma entrando nel vivo, un altro quesito è: i pazienti con patologie autoimmuni hanno un rischio aumentato?
Va chiarito che i pazienti affetti ad esempio da Artrite Reumatoide, Sclerodermia, Lupus, Sjogren etc., non hanno di per sè una maggiore probabilità di contrarre l’infezione virale da coronavirus. Tuttavia, questi pazienti, di base, hanno un’alterazione funzionale del sistema immunitario ed in aggiunta, frequentemente, assumono terapie (immunosoppressori, steroidi, farmaci biologici) che inibiscono costantemente la risposta immunitaria. Per questi due motivi, in caso d’infezione, l’evoluzione della malattia virale potrebbe essere più severa nei soggetti con patologie autoimmuni.
Ne consegue che i pazienti con malattia autoimmune devono seguire in modo particolarmente rigoroso tutte le indicazioni fornite alla popolazione generale (norme igieniche, distanziamento sociale etc.) ma non devono, comunque, interrompere o modificare autonomamente la terapia in corso. Nel caso di sospetta infezione o da coronavirus, le procedure da seguire sono le stesse indicate per la popolazione generale.

MALATTIE AUTOIMMUNI ENDOCRINOLOGICHE e COVID-19

Date questa premessa e la nota stretta relazione tra sistema immunitario e sistema neuro-endocrino, non deve sorprendere che numerose malattie autoimmuni coinvolgano direttamente anche le ghiandole endocrine (tiroide, pancreas, ipofisi, surrene, paratiroidi etc.). Tra le più frequenti patologie autoimmuni endocrinologiche ricordiamo: la Tiroidite Cronica di Hashimoto, il Diabete di tipo 1, il Morbo di Basedow e il Morbo di Addison.
Quindi, un altro quesito legittimo è: i pazienti con patologie autoimmuni endocrinologiche hanno un rischio aumentato durante l’infezione COVID-19?
Come già detto in precedenza tali pazienti non hanno di per sé una maggiore probabilità di contrarre l’infezione virale da SARS-CoV-2. In più, a differenza di molte altre patologie autoimmuni, quelle endocrinologiche prevedono un trattamento con farmaci sostitutivi e quasi mai con immuno-soppressori che potrebbero compromettere la risposta immune e rappresentare un maggior rischio di vulnerabilità all’infezione.
In ogni modo, sulla base delle evidenze scientifiche al momento disponibili, il seguito dell’articolo entrerà nel dettaglio del sistema endocrino, patologia per patologia.

TIROIDE e COVID-19

In generale, non vi sono ancora dati scientifici in merito a possibili relazioni tra COVID-19 e tireopatie. Tuttavia, segnalo che nella SARS, altra patologia respiratoria acuta causata, però, da altro corononavirus, alcuni lavori scientifici hanno evidenziato una riduzione dei livelli sierici di ormoni tiroidei (triiodotironina e tiroxina), come possibile conseguenza di un danno (infiammatorio o ipossico) che la tiroide subisce durante l’infezione. Questo dato è stato confermato da un lavoro effettuato su (solo) cinque autopsie su pazienti deceduti per SARS, che ha evidenziato un’alterazione della normale architettura follicolare della ghiandola tiroidea, verosimilmente secondaria a fenomeni apoptotici. Questo danneggiamento del parenchima tiroideo è stato identificato sia a carico delle cellule follicolari (tireociti) che parafollicolari (cellule C). Quest’alterazione anatomo-patologica potrebbe fornire la possibile spiegazione dei bassi livelli sierici di triiodotironina e tiroxina riscontrati nei pazienti con SARS. Ovviamente, se i dati della SARS (SARS-CoV) siano mutabili anche per la COVID-19 (SARS-CoV-2) è tutto da dimostrare.

Tiroidite Cronica di Hashimoto

La Tiroidite Cronica di Hashimoto è probabilmente la patologia autoimmune endocrinologica più comune, nonchè la causa più frequente di ipotiroidismo acquisito nei paesi occidentali. Per questa patologia, in assenza di sviluppo di ipotiroidismo, le linee guida internazionali non suggeriscono alcun trattamento farmacologico, e quindi nemmeno con farmaci immuno-soppressori. Pertanto, non vi sono motivi specifici per cui pazienti affetti da questa patologia debbano avere una maggior suscettibilità al COVID-19 rispetto alla popolazione generale. Non vi sono dati specifici in merito, pertanto al momento, tali soggetti vanno considerati ed equiparati ai normali soggetti della popolazione generale.

Morbo di Graves Basedow

Anche in questo caso, pur trattandosi di una patologia autoimmune non vi sono evidenze che i pazienti affetti da morbo di Basedow costituiscano una popolazione a rischio per COVID-19.
Anche questi pazienti, pertanto, vanno equiparati alla popolazione generale e devono consultare il proprio medico solo in caso di scompenso dell’ipertiroidismo.

Ipotiroidismo

E’ noto che gli ormoni tiroidei esercitano un effetto sulle cellule coinvolte nel processo immunitario (monociti, macrofagi, cellule natural killer, linfociti) e sulle varie fasi dell’infiammazione stessa. Pertanto è lecito chiedersi se un paziente con una carenza di ormone tiroideo (ipotiroidismo) possa essere considerato potenzialmente più immuno-depresso rispetto ad un soggetto non ipotiroideo.
Tuttavia, è bene ricordare che il sistema immunitario è regolato anche da altri importanti fattori (ormonali e non) extra-tiroidei in grado solitamente di garantire un’adeguata risposta immunitaria. Inoltre, va compreso che un paziente affetto da ipotiroidismo che assume correttamente la terapia sostitutiva con L-Tiroxina, non è più “tecnicamente” ipotiroideo e, quindi, non è più nemmeno potenzialmente immuno-depresso.
In conclusione, il paziente con ipotiroidismo, adeguatamente trattato e compensato, non presenta apparentemente un rischio maggiore di infezione virale o di complicanze legate alla COVID-19, rispetto alla popolazione generale non affetta da ipotiroidismo.
I pazienti affetti da ipotiroidismo in terapia sostitutiva, pertanto, sono tenuti a seguire, come la popolazione generale, le indicazioni generali dettate dai decreti ministeriali.

Tumore della tiroide

Anche in questo caso non vi sono evidenze scientifiche pubblicate. In generale si può affermare che la maggior parte dei pazienti affetti da tumore della tiroide non è da considerare a rischio di COVID-19. Solamente i pazienti che presentano carcinomi tiroidei particolarmente aggressivi o avanzati, con metastasi diffuse, specie se a livello polmomare, o che assumo terapie oncologiche specifiche (sorafenib, levantenib, vandetanib) possono essere a maggior rischio di sviluppare complicanze, sia per l’infezione COVID-19, sia per possibili effetti collaterali delle terapie assunte.
Per questi pazienti, quindi, è consigliabile rimanere a casa il più possibile e seguire ancora più rigorosamente le procedure di distanziamento sociale.

IPOFISI e COVID-19

Le patologie ipofisarie, sono spesso conseguenza di alterazioni morfologiche (empty sella, adenomi, pit-net) e/o disfunzionali dell’ipofisi. Quest’ultime possono essere determinare ipersecrezione (Malattia di Cushing, Acromegalia, Iperprolattinemia, Ipertiroidismo Centrale) o iposecrezione (Iposurrenalismo Centrale, deficit di GH, Ipotiroidismo Centrale, Diabete Insipido, Ipopituitarismo) di ormoni ipofisari.
Si tratta spesso di patologie rare, con frequenti aggiuntive alterazioni metaboliche e cardiovascolari e, quindi, di complessa gestione. In generale, si ritiene che i pazienti ipofisari maggiormente a rischio siano quelli con ipersecrezione o iposecrezione di cortisolo (Malattia di Cushing e Iposurrenalismo Centrale, rispettivamente).
Ovviamente, in questi pazienti, il rischio di sviluppare una COVID-19 più severa aumenta se a queste patologie si associano anche altre malattie (ad esempio diabete, ipertensione, asma etc.).
I pazienti affetti da queste patologie dovrebbero rimanere a casa il più possibile e seguire ancora più rigorosamente le procedure di distanziamento sociale.

Malattia di Cushing

La Sindrome di Cushing è una condizione clinica caratterizzata da cronica eccessiva esposizione a elevati livelli di cortisolo. Questa può essere secondaria a farmaci (iatrogena), di origine ipofisaria (Malattia di Cushing), surrenalica o ectopica. A prescindere dalla causa, tutti gli individui affetti da Sindrome di Cushing (quindi anche quelli con Malattia di Cushing ipofisaria) in scarso compenso sono, in generale, a maggior rischio di infezione. Pertanto, sebbene le informazioni sulle persone con Malattia di Cushing e COVID-19 siano scarse, anche data la rarità della condizione, tali soggetti dovrebbero ritenersi a maggior rischio potenziale di contrarre il SARS-CoV-2.
Pertanto in caso di Sindrome di Cushing è consigliabile attenersi rigorosamente alle raccomandazioni di distanziamento sociale suggerite per la popolazione generale, per ridurre il rischio di contrarre COVID-19. In caso di febbre, tosse, dispnea o altri sintomi sospetti per COVID-19, è consigliabile consultare il medico di base o lo specialista endocrinologo di riferimento.

Iposurrenalismo Centrale

L’iposurrenalismo o insufficienza surrenalica (centrale o periferica da Morbo di Addison) è una condizione cronica caratterizzata da mancanza di produzione di cortisolo. Per queste patologie il trattamento mira a imitare le concentrazioni fisiologiche di cortisolo nel plasma somministrando al paziente una terapia sostitutiva steroidea (Cortone Acetato o Idrocortisone).
I pazienti con Iposurrenalismo Centrale sono pazienti particolarmente delicati, a prescindere dalla COVID-19.
Infatti, sebbene sulla base dei dati attuali non vi siano prove che i pazienti con insufficienza surrenalica abbiano un aumentato rischio di contrarre COVID-19, è noto anche che i pazienti con insufficienza surrenalica primaria (Morbo di Addison) hanno un rischio complessivo leggermente maggiore di contrarre infezioni. Ciò perché questi soggetti hanno un’alterata azione di neutrofili e cellule natural killers e, conseguentemente, una funzione immunitaria naturale compromessa. Ciò spiegherebbe, in parte, sia l’aumentato tasso di malattie infettive, sia l’aumento complessivo della mortalità in questa categoria di pazienti, soprattutto per problematiche respiratorie, che sappiamo essere frequenti nella COVID-19. Un’altra possibile spiegazione di quest’aumentata mortalità, infine, potrebbe essere anche un insufficiente ed intempestivo aumento compensativo del dosaggio di steroide nelle fasi iniziali di un episodio infettivo. Quindi, per tutti questi motivi, anche i pazienti con insufficienza surrenalica centrale vanno considerati potenzialmente a maggior rischio di complicanze mediche e di mortalità in caso di infezione da COVID-19. Si ribadisce, tuttavia, che al momento, non vi sono comunque evidenze scientifiche dirette sugli esiti dell’infezione da COVID-19 in soggetti con insufficienza surrenalica.
Come detto, i pazienti affetti da insufficienza surrenalica assumono una terapia sostitutiva (Cortone Acetato o Idrocortisone) la cui finalità è somministrare un ormone il più simile possibile a quello fisiologicamente prodotto dal nostro organismo, sia per qualità, che per quantità. In tale terapia, quindi, il farmaco è somministrato a un dosaggio esattamente pari a quello che il corpo dovrebbe produrre e, inoltre, tale farmaco ha funzione principalmente glico-corticoide e non (primariamente) immunosoppressiva o antiinfiammatoria.
Per questi pazienti, la prima indicazione è di proseguire con la propria terapia sostitutiva alla dose abituale. Questa va aumentata solo in caso di segni di infezione da COVID-19, così come avviene per la maggior parte dei classici virus influenzali che si incontrano ogni inverno. In tali condizioni l’aumento del dosaggio aiuta l’organismo a far fronte allo stress e consiste, come indicato nella scheda steroidea che ogni paziente iposurrenalico dovrebbe avere, nel raddoppiare/triplicare la dose delle compresse assunte per bocca. Qualora l’incremento posologico non crei beneficio o in caso di eventi infiammatori maggiori (Insufficienza Respiratoria Acuta o intubazione nel caso di COVID-19) è consigliabile passare alla terapia endovena con idrocortisone.
E auspicabile che i pazienti affetti da iposurrenalismo dispongano di scorte di farmaci (compresse e fiale) sufficienti per consentire un rigoroso confinamento sociale adeguato e ridurre il proprio rischio di esposizione alla COVID-19.

Diabete Insipido

I pazienti affetti da diabete insipido in caso di infezione da COVID-19, potrebbero aver problemi a mantenere un equilibrio idro-elettrolitrico con disidratazione e alterazione del controllo del sodio.
Non vi sono evidenze scientifiche in merito ma è prudente per questi pazienti seguire attentamente le comuni indicazioni di distanziamento sociale proposte per la popolazione generale.

Prolattinoma, Acromegalia, Adenomi non Secernenti

Per tutti i pazienti con adenomi ipofisari secernenenti (causanti iperprolattinemia o acromegalia) o adenomi non funzionanti (NFPA) che non richiedono una terapia sostitutiva con cortisone (Cortone Acetato o Idrocortisone) non è riportato in letteratura scientifica alcun rischio di maggior severità della COVID-19, a meno che non coesistano altri fattori di rischio.
Anche per questi pazienti, comunque, è consigliato un rigoroso distanziamento sociale, come per tutta la popolazione.
Segnalo, tuttavia, un dato che d’interesse per i pazienti con adenomi ipofisari che devono sottoporsi ad interventi neurochirurgici di asportazione del tumore per via trans-naso-sfenoidale. E’ oramai un dato consolidato che i pazienti infetti da SARS-Cov-2 lamentino frequentemente perdita dell’olfatto (anosmia) e del gusto. Ciò avviene precocemente e talvolta come primo sintomo di infezione. Questo dato conferma che il virus è presente e si annida nelle cavità nasali e nelle vie respiratorie superiori anche quando il paziente è ancora asintomatico e non presenta ancora altra sintomatologia da COVID-19. In Cina è stato riportato l’episodio di quattordici persone infettate (tra cui diversi operatori sanitari) da un paziente COVID positivo, asintomatico, sottoposto a chirurgia endoscopica ipofisaria, probabilmente in seguito a dispersione del virus dalla cavità nasale. Quindi è consigliabile prestare particolare cautela nei pazienti in attesa di intervento neurochirurgico di asportazione di adenomi per via trans-naso-sfenoidale, anche se asintomatici. E’ importante, quindi, che i neurochirurghi identifichino ed escludano eventuali infezioni da SARS-Cov-2 in soggetti a rischio, anche se apparentemente asintomatici.

Patologie ipofisarie come conseguenze della COVID-19

Quanto descritto finora riguarda la gestione di pazienti affetti da una patologia ipofisaria nota qualora siano infettati dal SARS-Cov-2 e sviluppino una COVID-19.
Ma cosa sappiamo sugli effetti di una COVID-19 sull’ipofisi di soggetti sani? Mi spiego meglio: un’infezione da SARS-Cov-2 può causare danni o disfunzioni ipofisarie?
A questo proposito, segnalo due reports cinesi su possibili danni ipofisari come conseguenza della SARS che ricordo essere una patologia per certi versi molto simile alla COVID-19, ma comunque causata da un patogeno diverso dall’attuale SARS-CoV-2).
Il primo è un lavoro scientifico pubblicato su un gruppo di 61 pazienti guariti da circa tre mesi dalla SARS. Tale studio riscontrava la presenza di un iposurrenalismo centrale transitorio nel 39.3% dei pazienti, che si autorisolveva nel giro di un anno. In questi casi, si associava anche una tireotossicosi transitoria (3.3%) o un ipotiroidismo (centrale o periferico) (6.7%). Su questa base, lo studio suggeriva un possibile ruolo eziologico del coronavirus associato alla SARS nel causare un’ipofisite transitoria reversibile, con un maggiore interessamento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene rispetto all’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide.
Il secondo studio, invece, partiva dall’osservazione che in pazienti con SARS i valori sierici di PRL, LH e FSH sono elevati mentre quelli di TSH sono sostanzialmente più bassi del normale. Analizzando istologicamente l’ipofisi di cinque pazienti deceduti per SARS, questo studio confermava che le cellule ipofisarie secernenti PRL, FSH e LH non risultavano essere ridotte. Al contrario, apparivano danneggiate e ridotte di numero quelle producenti TSH, ACTH ed ormone della crescita (GH), coerentemente con i dati ormonali. Nel complesso, questi dati sembrano confermare l’ipotesi di un possibile danno ipofisario indotto dalla SARS selettivo per alcune linee ipofisarie, proporzionale alla gravità della malattia.
Ovviamente, ripeto, è da dimostrare se quanto ipotizzato per la SARS (SARS-CoV) sia mutuabile anche per la COVID-19 (SARS-CoV-2).

SURRENI e COVID-19

Le comuni patologie surrenaliche sono caratterizzate da un ridotta o eccessiva secrezione di cortisolo (Morbo di Addison o Sindrome di Cushing, rispettivamente).

Morbo di Addison

Per l’iposurrenalismo primario o Morbo di Addison, non vi sono evidenze scientifiche dirette. Per questa condizione vale quanto già riportato nel paragrafo dell’Iposurrenalismo Centrale.

Sindrome di Cushing

Per la Sindrome di Cushing non vi sono evidenze scientifiche dirette. Per questa condizione vale quanto già riportato nel paragrafo della Malattia di Cushing.

DIABETE e COVID-19

Il diabete è una condizione caratterizzata da insufficiente azione insulinica con conseguente aumento dei valori glicemici.
L’iperglicemia cronica influisce negativamente sulla funzione immunitaria e aumenta il rischio di morbilità e mortalità per qualsiasi tipo di infezione, quindi anche per quella da SARS-CoV-2. Questo, ad esempio, è già stato dimostrato, durante la pandemia di influenza A (H1N1): la presenza di diabete triplicava il rischio di ricovero e quadruplicava il rischio di accedere in terapia intensiva. Tale aumentato rischio sembra essere confermato in caso di infezione da SARS-CoV-2, come oramai è accertato un anche aumento del rischio di morbilità e mortalità nei pazienti con diabete in relazione all’infezione COVID-19.
Infatti, dai dati epidemiologici provenienti dalla pandemia da SARS-CoV-2, la percentuale complessiva di diabete in pazienti con COVID-19 è particolarmente elevata (tra il 5,3% e il 20%). I pazienti diabetici, infatti, hanno una risposta immunitaria compromessa e, pertanto, presentano una maggiore suscettibilità e una maggiore gravità della malattia a seguito dell’infezione da SARS-CoV-2. Inoltre, nei diabetici COVID positivi vi è un maggior rischio di evoluzione in sindrome da distress respiratorio acuto e in shock settico, condizioni che talvolta possono portare ad insufficienza multipla di altri organi (Multiple Organs Failure) e al decesso. Il paziente con diabete associato ad altre comorbidità, inoltre, più frequentemente necessita di terapia intensiva e di intubazione.
A conferma di ciò, dati epidemiologici cinesi, dimostrano che tra tutti i pazienti ricoverati in terapia intensiva per COVID-19, un’elevata percentuale di questi risultava effettivamente affetta da diabete.
Quindi si può affermare con certezza che la presenza di diabete si associa ad un aumento della mortalità da COVID-19 (7.3%), drammaticamente superiore a quella dei pazienti senza comorbilità (0,9%).
Una possibile spiegazione di questa aumentata mortalità potrebbe essere che l’infezione da SARS-CoV-2 inneschi condizioni di stress e una maggiore produzione di ormoni iperglicemizzanti (glucocorticoidi, catecolamine), con conseguente aumento della glicemia e con possibili picchi iperglicemici.
Alcuni studi hanno ipotizzato anche un possibile ruolo negativo di alcuni farmaci comunemente impiegati nel diabete (ACE inibitori), la cui discussione è trattata in dettaglio nel paragrafo “ipertensione”.
Un’altra possibile spiegazione, infine, è di tipo logistico-organizzativo. Infatti, come avvenuto in Cina, ed ora anche in Italia, per far fronte a questa emergenza ed aumentare la capacità di ricovero negli ospedali locali, sono stati reclutati molti medici, soprattutto rianimatori, anestesisti e pneumologi, sicuramente meno avvezzi alla gestione delle iperglicemie di quanto non lo siano gli specialisti endocrinologi e diabetologi.
Per questo, è auspicabile l’adozione di protocolli definiti per una gestione tempestiva e standardizzata della glicemia nei pazienti diabetici con COVID-19. Tale gestione dovrebbe prevedere un controllo periodico della glicemia in tutti i pazienti durante il ricovero per monitorare l’avanzamento della malattia ed evitarne l’aggravamento. Per i casi più critici, l’identificazione ed il trattamento di eventuali iperglicemie indotte da glucocorticoidi, può aiutare a prevenire sintomi peggiori. Anche dopo la dimissione è opportuno un adeguato controllo del compenso glicemico e che eviti altre malattie infettive per almeno un mese.
In conclusione, si può sicuramente affermare che per i pazienti affetti da diabete è particolarmente importante mantenere un buon controllo glicemico, perché potrebbe aiutare a ridurre il rischio di infezione stessa e nonché ridurre la gravità dell’espressione clinica della malattia COVID-19.
Quindi, innanzitutto, è importante che il diabetico segua in modo particolarmente rigoroso le comuni indicazioni di distanziamento sociale proposte per la popolazione generale, anche per proteggere se stesso. E’ opportuno, inoltre, che si garantisca un’adeguata scorta di farmaci e forniture per il monitoraggio delle glicemie capillari durante il periodo di isolamento.
Inoltre, durante la fase acuta della pandemia da SARS-CoV-2, per i pazienti diabetici non è consigliabile recarsi negli ospedali per gli abituali controlli, se non strettamente necessario. In questa fase emergenziale è auspicabile che vengano implementati e utilizzati i servizi di gestione online e da remoto delle glicemie. I Servizi di Endocrinologia e Diabetologia, dovrebbero gestire la patologia soprattutto con consulenze mediche a distanza, promuovendo la diffusione di video educativi e di informazioni sull’autogestione del diabete e sulla prevenzione COVID-19. Alcune società scientifiche italiane (SIE, SID, AMD) hanno prodotto una proposta congiunta specifica per la gestione del paziente diabetico in Italia durante questa pandemia. L’infezione da COVID-19, come in qualsiasi altro episodio infettivo, può determinare un deterioramento del compenso glicemico. Nel caso di sospetta infezione da COVID-19 è consigliabile contattare il prima possibile lo specialista di riferimento per una consulenza in merito alle misure da adottare per prevenire il rischio di deterioramento del controllo glicemico.

SISTEMA ADIPOSO e COVID-19

Obesità

Non vi sono dati sufficienti per definire l’impatto del SARS-CoV-2 nelle persone che soffrono di obesità. Tuttavia, sulla base di alcune esperienze spagnole sembrerebbe che i giovani con grave obesità possano sviluppare più frequentemente alveoliti distruttive, con conseguente insufficienza respiratoria e maggior rischio di decesso.
Attualmente, non vi sono spiegazioni certe per questa presentazione clinica. Ma è noto che l’obesità grave si associa a problematiche respiratorie (sindrome delle apnee notturne, disfunzione del tensioattivo polmonare) che possono probabilmente contribuire negativamente in caso COVID-19.
Inoltre, è noto che l’obesità è spesso associata a diabete che, a sua volta, è associato ad una compromissione della funzione ventilatoria che può quindi contribuire a una peggior prognosi nei pazienti COVID positivi.
L’associazione obesità-diabete, insieme ad altro fattori di rischio (ipertensione, età avanzata) determinano probabilmente un aumentato rischio di esito infausto in caso di infezione da COVID-19.
Per il paziente affetto da obesità severa è consigliabile seguire con particolare attenzione le comuni indicazioni di distanziamento sociale proposte per la popolazione generale.

Malnutrizione

Non vi sono dati certi in merito ad una possibile peggior prognosi nei pazienti con magrezza e malnutrizione. Tuttavia non può essere escluso che un organismo malnutrito, in seguito alle maggiori richieste energetiche necessarie durante un processo infiammatorio acuto, come nella COVID-19, possa avere una prognosi peggiore.
Nei pazienti ospedalizzati con questa problematica è raccomandata una dieta ricca di nutrienti, inclusi integratori ad alto contenuto proteico​​. Si raccomanda anche un’adeguata integrazione con vitamina D, soprattutto nelle categorie con prevalenza nota di ipovitaminosi D. Se insufficiente, può essere necessaria una nutrizione enterale e, ove impossibile, una nutrizione parenterale.
La prognosi dei pazienti COVID-19 dovrebbe migliorare con il supporto nutrizionale ma, ripeto, non vi sono dati certi in tal senso.
In ogni modo, il paziente con magrezza deve seguire con attenzione le comuni indicazioni di distanziamento sociale proposte per la popolazione generale.

METABOLISMO FOSFO-CALCICO e COVID-19

Vitamina D

La vitamina D è sicuramente un fondamentale regolatore del metabolismo fosfo-calcico e quindi è abitualmente impiegata nella gestione delle principali patologie osteo-metaboliche (rachitismo, iperparatiroidismo, osteoporosi, ipocalcemia, ipoparatiroidismo).
Tuttavia, la vitamina D sembra avere anche altre importanti azioni che potrebbero ritagliarle un ruolo importante nell’infezione da SARS-CoV-2.
Infatti, numerose evidenze scientifiche hanno ampiamente dimostrato un ruolo attivo della vitamina D sulla modulazione del sistema immune e la frequente associazione dell’ipovitaminosi D con numerose patologie croniche che possono ridurre l’aspettativa di vita nelle persone anziane. Inoltre, sono noti l’effetto positivo della vitamina D nel ridurre il rischio di infezioni respiratorie di origine virale (in quanto antagonista della replicazione virale nelle vie respiratorie) e la sua capacità di contrastare il danno polmonare da infiammazione. A supporto di tali dati diverse pubblicazioni scientifiche che dimostrano che nei pazienti con polmoniti acute si riscontrano valori ridotti di vitamina D e che, al contrario, adeguate concentrazioni sieriche di vitamina D (fisiologiche o indotte da terapia) hanno un ruolo protettivo verso lo sviluppo di infezioni respiratorie acute. Infine è stato anche dimostrato che la somministrazione di vitamina D, riduce la lunghezza dei tempi di ricovero in terapia intensiva.
La vitamina D sembrerebbe ridurre il rischio di infezioni respiratorie nell’uomo attraverso diversi meccanismi: a) il rafforzamento delle tight-junctions delle cellule della barriera polmonare; b) l’incremento dell’espressione di alcuni peptidi con azione antimicrobica e antivirale; c) la stimolazione dell’attività immuno-regolatoria. Per quest’ultimo punto esistono anche evidenze sui ratti che il calcitriolo prodotto dai fibroblasti polmonari sia in grado di ridurre il danno polmonare acuto mediante un effetto preventivo antiflogistico sulla polmonite interstiziale e che la sua somministrazione migliori la polmonite interstiziale.
Per tutti questi motivi, la vitamina D è stata oggetto di studio da parte di alcuni scienziati anche in relazione all’infezione COVID-19. Un lavoro di un gruppo di ricercatori italiani, che tuttavia al momento non è ancora pubblicato, suggerirebbe addirittura un “ possibile ruolo preventivo e terapeutico della vitamina D nella gestione della pandemia da COVID-19”.
Questo studio evidenzia innanzitutto un’elevatissima prevalenza di ipovitaminosi D nei pazienti italiani ricoverati per COVID-19. Non a caso, infatti, molti focolai italiani si sono sviluppati in posti (case di riposo, conventi, ospedali) in cui è presente una popolazione a più elevato rischio di ipovitaminosi D. Lo studio, inoltre, suggerisce che può essere utile assicurare adeguati livelli di vitamina D nella popolazione, ma soprattutto nei soggetti già contagiati, nei loro congiunti, nel personale sanitario e negli anziani fragili. Infine, si suggerisce addirittura una possibile utilità della somministrazione di calcitriolo per via endovenosa nei pazienti affetti da COVID-19 e con funzionalità respiratoria particolarmente compromessa.
Ovviamente i dati in merito all’impiego della vitamina D in caso di infezione COVID-19 sono ancora pochi e tutt’altro che definitivi. Tuttavia, non sembra impropria la raccomandazione alle persone di mantenere adeguati valori sierici di vitamina D con l’esposizione solare e, ove impossibile, con integratori di vitamina D.

Osteoporosi e Osteonecrosi

Anche in questo caso non vi sono dati certi in merito alle relazioni tra patologie ossee come l’osteoporosi e infezione COVID-19. Data l’età avanzata di molti pazienti ricoverati non si esclude che la percentuale di osteoporosi in questi pazienti possa essere elevata ma puramente per un dato epidemiologico e non eziopatogenetico. Sicuramente, lo è quella dei soggetti con ipovitaminosi D.
Infine, si segnala che nella SARS, altra patologia respiratoria acuta causata però da altro corononavirus, alcuni lavori scientifici hanno evidenziato una maggior prevalenza di osteonecrosi della testa del femore in pazienti affetti da SARS. Ovviamente, anche in questo caso, non è certo che i dati della SARS (SARS-CoV) siano mutabili anche per la COVID-19 (SARS-CoV-2).

IPERTENSIONE e COVID-19

L’ipertensione è una condizione che è frequentemente riportata come fattore di rischio nei pazienti COVID positivi, specie se associata a diabete, patologie cardiache o ischemiche cerebrali. Alcune classi di farmaci molto impiegati in queste categorie di pazienti sono gli ACE-inibitori e i sartani (antagonisti dei recettori dell’angiotensina II).
L’ACE (Angiotensin-Converting Enzyme) è un enzima che converte l’angiotensina I in angiotensina II, un ormone endocrinovasocostrittore che quindi causa aumento della pressione arteriosa. L’angiotensina II, a sua volta, viene trasformata da un altro enzima, definito ACE2 (Angiotensin-Converting Enzyme-2), in un’altra molecola (ANG 1-7) con azione vasodilatante. Quest’ultimo (ACE2) è un enzima di membrana, con la parte catalitica rivolta verso lo spazio extra-cellulare, presente nelle cellule epiteliali polmonari, renali, intestinali, cardiache e di altri tessuti.
È stato dimostrato che ACE2 viene utilizzato dai coronavirus (SARS-CoV e SARS-CoV-2) come porta d’ingresso nelle cellule bersaglio (per intenderci le cellule epiteliali degli alveoli polmonari). Il SARS-CoV-2, infatti ha una proteina (glicoproteina S) allungata che sporge dalla superficie del virus (e per questo detta “spike”) che è fondamentale perché il virus si attacchi e penetri nella cellula bersaglio. Quindi il SARS-CoV-2 si attacca all’ACE2 e attraverso questo penetra all’interno della cellula bersaglio e comincia il suo processo replicativo. Inoltre, trascinando con sé l’ACE2 all’interno della cellula con conseguente down-regolation dello stesso, potrebbe causare vasocostrizione e quindi un peggioramento degli scambi gassosi a livello polmonare.
Studi in vitro hanno dimostrato che sia gli ACE-inibitori che i sartani, aumentano significativamente l’espressione genica dell’ACE2. Questo, quindi, potrebbe favorire l’ingresso del coronavirus SARS-Cov2 nelle cellule bersaglio.
Per tale motivo alcuni suggeriscono di valutare con attenzione i potenziali effetti della terapia con queste classi di farmaci in pazienti affetti da Sars-CoV-2.
Altri studi in vitro, invece, sembrano però suggerire il contrario. Infatti, sia gli ACE-inibitori che i sartani, comportando un aumento dell’espressione genica di ACE2, determinerebbero comunque una maggiore produzione di ANG1-7 a livello polmonare e quindi il mantenimento di un’adeguata vaso-dilatazione a livello del circolo polmonare, in grado di garantire, quindi, un miglior rapporto ventilazione-perfusione e una diminuzione del rischio di insufficienza respiratoria.
Dalla contrapposizione di queste ipotesi molecolari, sono poi emerse informazioni contraddittorie e potenzialmente pericolose circa possibili effetti protettivi o dannosi dei farmaci anti-ipertensivi ACE-inibitori/sartani in pazienti affetti da COVID-19.
Su questa base, l’Agenzia Italiana del Farmaco e in modo analogo molte altre società scientifiche, hanno precisato che si tratta solo di ipotesi molecolari derivate da studi in vitro e che non vi sono evidenze scientifiche derivate da studi clinici o epidemiologici.
Pertanto, in base alle conoscenze attuali, non è raccomandato modificare la terapia in atto con anti-ipertensivi (qualunque sia la classe terapeutica) nei pazienti ipertesi ben controllati, in quanto esporre questi pazienti fragili a potenziali nuovi effetti collaterali o a un aumentato rischio di eventi avversi CV non appare giustificato.

 

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Dott. Massimiliano Andrioli
Specialista in Endocrinologia e Malattie del Ricambio

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