MORBO DI PAGET
Il Morbo di Paget (MP) è una patologia caratterizzata da alterazioni focali del rimodellamento osseo in cui la normale architettura è sovvertita dalla formazione di tessuto osseo non organizzato con una conseguente tendenza alla comparsa di dolore, deformità e fratture a carico dei segmenti ossei interessati ed artrosi secondaria nelle articolazioni adiacenti. Il morbo di Paget si definisce mono- o poliostotico a seconda del numero di siti scheletrici coinvolti (1).
EPIDEMIOLOGIA
Il morbo di Paget colpisce il 3-4% degli adulti oltre i 55 anni. La prevalenza del morbo di Paget aumenta con l’età e studi recenti suggeriscono una prevalenza dell’8% tra i maschi e del 5% tra le femmine nell’ottava decade di vita (2). Dal punto di vista epidemiologico ci sono molte differenze etniche e geografiche nella prevalenza della malattia. La Gran Bretagna ha la maggior prevalenza ma la malattia è comune anche nel sud e nell’ovest Europa, in Australia, Nuova Zelanda e Sud Africa. Al contrario è rara in scandinavia, nel subcontinente Indiano, Cina, Giappone e altri paesi del sudest asiatico. Questi aspetti suggeriscono che fattori genetici sono importanti sebbene alcune recenti evidenze indichino che anche fattori ambientali giocano un ruolo rilevante, data la recente riduzione nella prevalenza registrata in alcuni paesi negli ultimi 25 anni. Il motivo di tale riduzione non è completamente noto ma si pensa che fattori ambientali e i flussi migratori siano i maggiori responsabili.
EZIOPATOGENESI
La causa della malattia di Paget rimane ampiamente sconosciuta. Le tipiche inclusioni intracitoplasmatiche ed intranucleari del morbo di Paget simili ai nucleocapsidi dei paramixovirus e la presenza di mRNA dei virus respiratori sinciziali suggeriscono che un’infezione virale possa essere coinvolta nella genesi della malattia. Altre ipotesi eziologiche sono quelle genetiche dato che l’evidenza di una forte familiarità in molti casi di morbo di Paget indicano l’ereditarietà di questa condizione come un tratto dominante. Le mutazioni genetiche somatiche o germinali coinvolte sono a carico del gene SQSTM1/p62 che codifica per una proteina coinvolta nel reclutamento dei preosteoclasti e nell’attivazione degli osteoclasti (3).
STORIA NATURALE E DISTRIBUZIONE SCHELETRICA
L’evento primario nel morbo di Paget è l’intenso focale riassorbimento seguito da una formazione disordinata che porta ad un rimodellamento osseo anormale. Il morbo di Paget evolve attraverso diverse fasi di attività, seguite da fasi inattive o quiescenti. Le tre fasi principali sono: la fase litica (incipiente/attiva) in cui predomina il riassorbimento osteoclastico; la fase mista (attiva) in cui vi è coesistenza di osteolisi ed osteosclerosi con predominanza di attività osteoblastica; la fase blastica (tardiva/inattiva)in cui la fase osteoblastica si riduce gradualmente (4). Queste tre fasi sono responsabili dei diversi quadri radiologici con cui si presenta il morbo di Paget. Lo scheletro assiale è preferenzialmente coinvolto e gli altri siti interessati sono la pelvi (30-75% dei casi), femore (25-35%), rachide lombare (30-75%), cranio (25-65%) e la tibia (32%). Meno frequentemente può essere osservato un coinvolgimento cervicale e toracico. Preferenzialmente vengono coinvolte le estremità inferiori rispetto alle superiori. Le forme poliostotiche sono molto più frequenti rispetto alle monostotiche. Queste ultime sembrano essere predominanti a livello dello scheletro assile.
CLINICA
Circa un quinto delle persone affette da morbo di Paget sono interamente asintomatiche per cui spesso la diagnosi è incidentale in seguito all’esecuzione di esami effettuati per altri motivi. Tuttavia la malattia è caratterizzata da un processo doloroso e progressivo e bruciore al segmento scheletrico colpito che solo occasionalmente si manifesta con sintomi severi e segni che possono includere complicanze scheletriche, neuromuscolari (sordità, paralisi dei nervi cranici) e cardiovascolari. Il dolore è essenzialmente dovuto alla deformazione del periostio, la presenza di microfratture e l’aumento della vascolarità delle lesioni pagetiche. Può essere di origine scheletrica, neurologica, muscolare o articolare; è generalmente sordo e continuo, talvolta associato a sensazione di caldo urente e, diversamente dal dolore tipico dell’osteoartrite, peggiora con il riposo, nelle ore notturne, e con il carico se la malattia ha colpito lo scheletro portante. Tuttavia, nella maggior parte dei casi il dolore osseo risulta spesso indistinguibile dal dolore articolare con il quale generalmente coesiste.
I sintomi dipendono dalla localizzazione di malattia. Quando sono interessate le ossa lunghe delle estremità la curvatura prominente delle stesse è uno dei segni più evidenti con conseguente alterazione dell’andatura. Quando si verificano fratture causate dall’indebolimento dell’osso alterato sono presenti dolore e ridotta mobilità con secondaria osteoartrite. La maggior parte delle fratture incomplete si verifica durante la fase osteolitica, mentre quelle complete sono più frequenti nella fase osteoblastica. La guarigione delle fratture nell’osso pagetico non è ritardata, pur essendo possibile un’incompleta saldatura dei segmenti ossei.
Quando sono coinvolte le ossa della faccia si verificano deformità caratteristiche note come “leontiasi ossea”, mentre il coinvolgimento della mandibola può provocare problemi alla masticazione. Il coinvolgimento della base cranica può portare a cefalea, invaginazione basilare, idrocefalo mentre quello vertebrale può essere associato a fratture, compressione delle radici nervose, debolezza muscolare, stenosi spinale, sindrome della cauda equina e cifosi. Possono essere associate complicanze neurologiche tra cui l’ipoacusia, dovuta a ingrossamento delle ossa craniche e conseguente compressione del nervo acustico e a perdita di massa ossea a livello coclearie; la stenosi del canale spinale, legata ad una compressione sul midollo spinale da parte di vertebre deformate, con conseguente paraplegia; il deficit dei nervi cranici con compressione del II, V e VII paio di nervo cranico, con alterazioni del visus e paralisi facciali. L’ipercalcemia è una delle complicanze che si può verificare nei pazienti con lesioni poliostostiche, ed è la conseguenza di una prolungata immobilizzazione. L’aumento del riassorbimento osseo può determinare un aumento dell’escrezione urinaria di calcio (ipercalciuria), che non si riflette però in un aumento dell’incidenza di nefrolitiasi. La complicanza più grave ma rara è un tumore osseo secondario (<1%): si manifesta con peggioramento del dolore notturno, gonfiore e frattura senza trauma (3,5) (prenota una visita ortopedica).
DIAGNOSI
La diagnosi di morbo di Paget può essere effettuata sulla base della comparsa di sintomi e segni specifici o essere del tutto casuale. La sintomatologia clinica, tuttavia, è rilevante solo nelle forme poliostotiche e può essere suggestiva per morbo di Paget solo quando sono interessate le ossa del cranio. Trattandosi di una patologia caratterizzata da un accelerato rimodellamento osseo, i markers di turnover costituiscono un metodo semplice e poco costoso per effettuare la diagnosi ed il monitoraggio della malattia. La fosfatasi alcalina (AP) è il marcatore di formazione più sensibile e specifico della malattia, è aumentata nel 95% dei pazienti e correla direttamente con la gravità e l’estensione del coinvolgimento scheletrico (6) Qualora il paziente fosse affetto da epatopatia è opportuno dosare l’isoforma ossea della fosfatasi alcalina. Anche i peptidi del procollagene di tipo 1, P1NP e P1CP o l’osteocalcina possono essere elevati nel morbo di Paget, sebbene siano meno sensibili e accurati rispetto alla fosfatasi alcalina. La misurazione della sola fosfatasi alcalina è sufficiente per la valutazione biochimica e il follow-up, a meno chè non coesista un’epatopatia per cui può essere utile dosare l’isoforma osso-specifica. La misurazione di calcio e vitamina D può essere utile per escludere un iperparatiroidismo primario e un deficit di vitamina D a fronte di livelli elevati di fosfatasi alcalina. I marcatori di riassorbimento osseo sono più costosi e non sono altrettanto sensibili. La diagnosi strumentale di morbo di Paget si effettua facilmente con una radiografia (prenota una visita ortopedica). Al momento della diagnosi le immagini tipicamente mostrano aree di sclerosi alternate ad aree di osteolisi ed espanzione ossea tipiche del morbo di Paget. Tuttavia le lesioni non sono sempre specifiche per morbo di Paget e devono essere prese in considerazione numerose diagnosi differenziali tra cui neoplasie primitive o metastasi ossee. In alcuni casi la TAC può essere utile per distinguere queste patologie (7). La scintigrafia ossea è più sensibile rispetto alla radiografia nell’identificare le lesioni pagetiche (8) tuttavia la sua specificità è molto scarsa poiché numerose altre patologie caratterizzate da rimodellamento osseo, ivi incluse quelle indotte da metastasi scheletriche, si associano a positività scintigrafica; tale indagine va quindi raccomandata in seguito al rilievo radiologico di un segmento scheletrico interessato da morbo di PagetP, per valutare l’estensione della patologia. La biopsia ossea è raramente necessaria per la diagnosi di morbo di Paget e può essere riservata a quei casi in cui la diagnosi differenziale tra MP e metastasi osteosclerotica è particolarmente difficile o nei casi in cui si sospetti un’evoluzione verso l’osteosarcoama (prenota una visita ortopedica).
TERAPIA
Lo scopo della terapia del morbo di Paget è quello di ridurre l’aumentato turnover osseo con l’obiettivo di ottenere una remissione biochimica prolungata nel tempo nella speranza di ridurre il rischio di complicanze a lungo termine. E’ inoltre importante raggiungere un rapido controllo dell’attività di malattia per preservare la struttura normale dell’osso e l’integrità meccanica.
La terapia medica è indicata nelle seguenti circostanze: per controllare i sintomi causati dalla malattia metabolicamente attiva come il dolore osseo, fratture, mal di testa, dolore da radicolopatia o artopatia, complicanze neurologiche; per ridurre il flusso di sangue locale e minimizzare la perdita di sangue nei pazienti che necessitano di terapia chirurgica; per ridurre l’ipercalciuria che si può verificare durante l’immobilizzazione, per ridurre il rischio di complicanze quando la malattia è altamente attiva. Il dolore dell’osso pagetico risponde bene ai bifosfonati e alla calcitonina che inibiscono il riassorbimento osteoclastico ma può anche essere controllato con analgesici ed antinfiammatori non steroidei. Evidenze provenienti da trials clinici randomizzati hanno dimostrato che i bifosfonati riducono il turnover, migliorano il dolore osseo, promuovono la guarigione delle lesioni osteolitiche e ripristinano la normale architettura ossea . Non è stato ancora dimostrato se i bifosfonati siano in grado di prevenire le complicanze.
Per quanto riguarda i sintomi legati a deformità, compressione nervosa, artrosi secondaria su cui non hanno effetti i bifosfonati, vengono utilizzati anti-infiammatori anche steroidei per decomprimere radici nervose ed interventi chirurgici. La terapia chirurgica è frequentemente utilizzata per il management delle complicanze. Le indicazioni più comuni sono le sostituzioni articolari per l’osteoartrite, la fissazione delle fratture, l’osteotomia per correggere le deformità, la correzione della stenosi del midollo e la chirurgia profilattica nei pazienti con pseudofratture dolorose (9) (prenota una visita ortopedica).
Il primo bifosfonato utilizzato nella terapia del Paget è stato l’etidronato (10-20 mg/kh/giorno). Era in grado di ridurre rapidamente i markers di turnover osseo in modo più completo rispetto a quello che si otteneva in precedenza con la calcitonina. L’effetto era dipendente dalla dose totale somministrata e non tanto dalla frequenza o dalla durata delle somministrazioni. Rispetto alla calcitonina inoltre gli effetti permanevano anche dopo la sospensione. Il clodronato fu il primo bifosfonato usato per via endovenosa ad alte dosi e i suoi vantaggi erano soprattutto legati all’assenza di sintomi gastrointestinali.
La terapia del morbo di Paget è cambiata con l’avvento degli aminobifosfonati: il primo ad essere utilizzato fu il pamidronato. I risultati sono già visibili dopo un mese di terapia e completi dopo 3-6 mesi.
Successivamente fu introdotto l’alendronato (40 mg/die) per 6 mesi con una normalizzazione della fosfatasi alcalina nell’arco di 6 mesi nel 60-70% dei soggetti. Gli effetti migliorano se la terapia viene protratta per 12 mesi. Gli stessi risultati, e secondo alcuni anche migliori, si ottengono con risedronato (30 mg/die per 2-3 mesi). Il più recente farmaco introdotto è lo zoledronato, il farmaco a maggior potenza. E’ somministrato via endovenosa alla dose di 5 mg in 15 minuti. I livelli di fosfatasi alcalina si normalizzano in quasi tutti i pazienti e i risultati si mantengono fino a 6 anni dalla somministrazione nella maggior parte dei pazienti.
I bifosfonati somministrati EV sono da preferire a quelli per OS nei pazienti con problematiche a livello gastrico. Essi possono provocare una sindrome post-infuzione con sintomi simil-influenzali nel 15% dei pazienti trattati durante il primo ciclo. Per questo motivo è consigliata la somministrazione di paracetamolo (es. 1 g x 2 al dì) durante il giorno dell’infusione e nei primi giorni successivi (10).
Il metodo più semplice e maggiormente utilizzato per valutare gli effetti della terapia è la misurazione dei parametri di rimodellamento osseo, in particolare la fosfatasi alcalina. In passato una riduzione del 30% della fosfatasi alcalina era considerata una buona risposta tuttavia, con l’avvento di metodiche di dosaggio più sensibili, l’end-point primario della terapia farmacologica (11).
Al termine della terapia, i parametri biochimici dovrebbero essere valutati a 3 mesi, tempo sufficiente per stabilire la remissione o l’eventuale necessità di un nuovo ciclo terapeutico da iniziare 6 mesi dopo il primo. Il trattamento dovrebbe essere monitorato attraverso il dosaggio della fosfatasi alcalina ogni 3 mesi per i primi 6 mesi di terapia e ogni 6 mesi successivamente. Nel momento in cui fosfatasi alcalina aumenta del 25% rispetto al limite di norma, è indicativo di riattivazione e dovrebbe essere considerato un nuovo ciclo di terapia. Dal momento che il morbo di Paget è frequentemente diagnosticato negli adulti ed anziani i quali spesso soffrono di deficit di vitamina D, è raccomandata una terapia con calcio (500-1000 mg/die) e vitamina D (400-800 U/die) prima di iniziare la terapia riassorbitiva in modo da evitare l’insorgenza di ipocalcemia e/o iperparatiroidismo secondario.
Dott.ssa Chiara Carzaniga
Bibliografia
1)Monfort J, Sala R, Romero A, Duró J, Maymó J, Carbonell J. Epidemiological, clinical, biochemical, and imaging characteristics of monostotic and polyostotic Paget’s disease. Bone 1999; 24[suppl 5]:13S–14S
2) Van Staa TP, Selby P, Leufkens HG, Lyles K, Sprafka JM, Cooper C. Incidence and natural history of Paget’s disease of bone in England and Wales. J Bone Miner Res 2002; 17: 465–71.)
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11) Shankar S, Hosling DJ (2006) Biochemical assessment of Paget’s disease of bone. J Bone Miner Res 21[Suppl 2]:P22–P27)
LUG
2012